PREMIO NOBEL LETTERATURA: anno 1951 Pär Fabian Lagerkvist

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Nel 1951 il Premio Nobel per la Letteratura venne assegnato per la quarta volta ad uno scrittore svedese e precisamente a me, Pär Fabian Lagerkvist, “per il suo vigore artistico e per l’indipendenza del suo pensiero con cui cercò, nelle sue opere, di trovare risposte alle eterne domande che l’umanità affronta“, così scrissero. 

Ero nato a Växjö, 23 Maggio 1891 nella provincia dello Småland, in Svezia. All’inizio della mia carriera, soggiornai a lungo a Parigi, dove subii l’influenza dei movimenti d’avanguardia, riconoscibile nel saggio sul cubismo letterario del 1913 “Arte verbale e arte figurativa“, nel quale mostrai, nel mio proposito di rinnovamento della poesia, una tendenza primitivistica, alla ricerca di uno stile più puro e essenziale. Quando iniziai a scrivere il mio interesse era indirizzato verso le avanguardie, la violenza espressionistica di poesie che riflettevano gli orrori della guerra e da una produzione teatrale influenzata dalle opere dallo stile mistico e surreale di Johan August Strindberg.  Tra le mie prime opere nel 1916 pubblicai “Angoscia” e nel 1919 “Caos” entrambe raccolte di poesie. Nel 1920 fu la volta del romanzo “Il sorriso eterno” in cui raccontai in modo suggestivo l’angoscia dei morti nell’Aldilà alla ricerca di un senso dell’esistenza. Poi venne nel 1925 “Ospite della realtà“, nel 1933 “Il boia” apologia sul concetto del male, raffigurata attraverso un parallelo tra il boia medievale e la Germania nazionalsocialista. Tutte le mie opere, anche quelle più pessimistiche, nacquero dalla mia necessità di affermare i valori fondamentali della vita e dalla mia ricerca costante da ateo di superare il vuoto lasciato dalla mancanza della fede. Vinsi il Nobel grazie al mio romanzo “Barabba” edito nel 1950, nel quale affrontai la crisi spirituale del ladro liberato al posto di Gesù, ma il romanzo più famoso è “Il nano” del 1944, un’opera di notevole impatto emotivo, ambientata in una corte rinascimentale italiana, una parabola sul sentimento del male che si insinua misteriosamente nell’uomo. Nel 1962 pubblicai il romanzo “Pellegrino sul mare”  sulla ricerca dell’assoluto, ancora temi religiosi. Il mio ultimo romanzo è stato “Mariamne” nel 1967 nel quale raccontai la storia della seconda moglie di Erode, prima amata e poi fatta uccidere dal marito stesso. Mi cimentai anche con il teatro espressionista in polemica con il naturalismo, drammi frutto di un alto travaglio morale e popolati di figure emblematiche come in “L’ultimo uomo” del 1917, “Il mistero del cielo” del 1919, “L’invisibile” del 1923, “L’uomo senz’anima” del 1936, “Vittoria nelle tenebre” del 1939 e “Barabba” del 1952 tratto dal mio romanzo.  Ho lasciato questo mondo l’11 Luglio 1974. Nei miei scritti si ritrovano simbolismo ed espressionismo, come un’aspirazione a scrivere con semplicità dei problemi fondamentali dell’esistenza, che va oltre l’angoscia dell’uomo senza fede ma che ne rimane comunque affasciato. Sono considerato una delle figure più rappresentativa della letteratura del mio paese della prima metà del secolo scorso, con le mie opere manifestai un’accesa e vigorosa presa di posizione contro il Nazismo, che ritenevo una minaccia ai valori fondamentali dello spirito e della civiltà umana. 

Nel 1927 scrissi “La mia parola è no” del quale vi propongo quanto segue, al quale seguirà una breve poesia.

“La mia parola è no”

Io non voglio la vita. Voglio vincere la vita. La mia parola è No. Noi non apparteniamo alla vita. Anche se forse la nostra anima si dissolverà col nostro corpo, anche se forse non abbiamo altro che questo breve tempo in cui ci è dato di fiorire e morire – comunque non le apparteniamo. Siamo qui per superare la vita, per vincerla. È per un rifiuto che siamo al mondo, per essere scoglio sul mare del tempo contro cui le onde infinite s’infrangono facendosi schiuma. La nostra parola è No. Nulla placa la nostalgia dell’anima. Né il dolore, né la gioia più profonda. Perché essere uomo è avere fame, solo avere fame, fame – di qualcosa che non si può raggiungere. Di qualcosa che non esiste. Sì, ogni giorno è una prigione. Ogni istante che ci è dato, ogni lasso di tempo che possiamo vivere è una prigione nella quale siamo tenuti segregati. Ogni fede, ogni dubbio, ogni passione che ci prende, ogni estasi che ci riempie col suo fuoco è la nostra prigione che ci si chiude intorno… Passiamo di segreta in segreta per tetri corridoi in un labirinto in cui nessuno si orienta, neppure che ci guida… Questa è la vita terrena. Vita da talpe, la vita terrena. La vita non ha per fine la nostra realizzazione. La vita non ci capisce. E come potrebbe. È tutt’altro da noi… Vivere! Perché dobbiamo sempre, sempre vivere? Perché non possiamo mai essere? È questa la nostra tragedia: la vita non ci basta. È da qui che derivano tutti i nostri problemi, tutta la nostra miseria. Siamo esseri che tendono le mani al cielo. C’è una nauseante atmosfera d’interesse “spirituale”, in cui i poeti, con il loro fiuto e la loro opportunistica emotività professionale, divulgano il sapere e indicano agli uomini il cammino del loro vero dominio. S’instaura una sorta di comoda “concezione esistenziale”, che si nutre della più viva curiosità per tutto ciò che di più basso e più primitivo vi è nell’uomo. Ma su ciò che vi è di più alto, di divino, non si è curiosi. Sono valori incerti, che han più volte dato prova di non essere di grande affidamento. Mentre il basso, l’animalesco, è certo. È qualcosa su cui contare, lo sappiamo bene. La vita è il prezzo che paghiamo perché il nostro essere possa esistere. Mai, cuore umano, troverai pace dal tuo sogno di eternità. Mai ti basterà la vita. Tu devi creare, cercare qualcos’altro, qualcosa al di là. Dobbiamo perennemente dare la sua parte all’immortalità.

SOTTO LE STELLE

Qui io voglio rimanere,

muto.

Qui io voglio deporre la mia fronte.

Sacro luogo.

Nessuna parola umana è verità.

Nessuna risposta.

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