Nel 1946 il premio Nobel per la Letteratura venne assegnato a me, HERMANN HESSE, uno degli scrittori più letti del secolo, così mi definiscono, “per la sua forte ispirazione letteraria coraggiosa e penetrante esempio classico di ideali filantropici ed alta qualità di stile”.
Sono nato il 2 luglio del 1877 a Calw, un paese della Svevia, in Germania. Mio nonno era un famoso missionario, Hermann Gundert. Mio padre, Johannes, ex missionario e direttore editoriale era un cittadino tedesco nato in Estonia mentre mia madre, Maria Gundert, era nata in India da padre tedesco e madre svizzero-francese. Da questo singolare impasto di culture si può forse far risalire la successiva attrazione che sviluppai per la visione del mondo orientale, la quale ebbe la sua massima espressione nel celeberrimo “Siddhartha”, considerato dai posteri un vero e proprio “cult” per generazioni di adolescenti e no. La mia famiglia mi impartì una severa educazione pietistica, tale da provocarmi non poche reazioni negative a causa della mia grande sensibilità. Alcuni esempi di questa insofferenza si possono rinvenire direttamente, attraverso gli schizzi autobiografici che ho lasciato e nei quali descrivo le reazioni negative ai doveri imposti e a qualsiasi “comando familiare”, prescindendone dalla giustezza come dalla nobiltà delle intenzioni. Ero un bambino oltremodo sensibile e testardo, creavo ai miei genitori e ai miei educatori notevoli difficoltà. Già nel 1881 mia madre intuì che sarei andato incontro a un futuro non ordinario. Nello stile di pensiero che le era consono informò mio padre dei suoi timori. Un’altra figura di notevole rilievo nella mia crescita è stata quella del mio nonno materno, Hermann Guntert, missionario in India fino al 1859, ed erudito poliglotta conoscitore di vari dialetti indiani. Fra l’altro, aveva scritto una grammatica, un dizionario, e tradotto il Nuovo Testamento nella lingua malajala. L’accesso alla ricca biblioteca di mio nonno, fu essenziale per la mia formazione extrascolastica, soprattutto nel periodo delle crisi giovanili, anch’esse ben documentate dagli scritti che ho lasciato, nonché riscontrabili nelle gesta e nei moti dell’animo che ho tratteggiato nei personaggi dei miei romanzi. Malgrado le migliori intenzioni, dunque, i metodi pedagogici dei miei genitori non ottennero lo scopo di “addomesticare” il bambino così poco docile che era in me, pur tentando, conformemente ai principi del pietismo, di frenare già nei miei primi anni quell’ostinazione ribelle che mi era propria. Così mio padre decise, trovandosi con la famiglia a Basilea e non avendo altra soluzione, di lasciar educare questo bambino irrequieto al di fuori della famiglia. Nel 1888 entrai nel ginnasio di Calw, che frequentai controvoglia pur risultando fra i primi della classe. Il mio futuro appariva predeterminato. Avrei percorso una strada comune a molti figli di pastori in Svevia, attraverso l’esame regionale in seminario, quindi alla facoltà teologica-evangelica di Tubinga. Le cose tuttavia dovevano andare altrimenti. Superai senza difficoltà l’esame a Stoccarda ed ebbi accesso, nel settembre del 1891, al seminario di Maulbronn. Era un istituto di formazione in cui convivevano cultura medievale cistercense, cultura classica e pietismo. Tuttavia, sei mesi più tardi, senza apparente ragione, scappai dall’istituto. Venni ritrovato il giorno successivo e riportato al seminario. I miei insegnanti mi trattarono con comprensione ma mi sottoposero a otto ore di reclusione “per aver lasciato senza autorizzazione l’istituto“. Cominciai, però, a soffrire di gravi stati depressivi, tali da indurre gli insegnanti a caldeggiare un mio ritorno a casa. I miei genitori non trovarono di meglio che inviarlmi per una “cura”, dal pastore Christoph Blumhardt. La conseguenza fu un mio tentativo di suicidio, che sarebbe riuscito se il revolver non si fosse inceppato. Venni quindi ricoverato in una clinica per malati di nervi, un luogo di fatto simile ad un manicomio. Questo intrecciarsi di motivi esistenziali diversi gettò notevole luce sulla mia attività narrativa. La mia vita e la mia opera infatti, sono percorse interamente dal contrasto fra tradizione familiare, personalità e coscienza individuale e realtà esterna. Il fatto che io sia riuscito, nonostante i ripetuti conflitti interiori e in contrasto con le decisioni familiari, ad assecondare la mia volontà, non può essere spiegato soltanto con la caparbietà e la forte consapevolezza che albergavano in me. Fortunatamente i miei genitori mi concessero, dopo molte insistenze e preghiere, di ritornare a Calw, dove frequentai il ginnasio. Non portai a termine comunque l’intero ciclo di studi. All’esperienza scolastica seguì un brevissimo apprendistato come libraio che abbandonai dopo soli quattro giorni; venni ritrovato da mio padre in giro per le strade di Stoccarda, quindi venni spedito in cura da un dottore presso il quale trascorsi alcuni mesi dedicandomi al giardinaggio, finché ottenni il permesso di tornare in famiglia. Nei due anni successivi il mio umore sembrò migliorare. Aiutavo mio padre, lavoravo in giardino e feci un breve apprendistato in una libreria e in un’azienda ad ore, ed ero un lettore incallito. In questo periodo composi alcuni poemi e racconti, deciso a intraprendere la carriera di scrittore. Mio padre tuttavia non mi permise di lasciare casa per inseguire le mie ambizioni. Solo nell’ottobre del 1895 mi fu concesso di cominciare un apprendistato come libraio presso una libreria a Tubinga, una città universitaria famosa per la sua tradizione culturale. Qui, libero dalle costrizioni familiari e dalla pressione scolastica, cominciai a seguire la mia strada di scrittore. Conobbi famosi giovani scrittori e cominciai a leggere la letteratura medievale, i romanzi tedeschi e le opere orientali. Fu durante questo periodo che pubblicai le mie prime opere come “Canti Romantici” e “Un’ora dopo mezzanotte”. Al pietismo dei miei genitori in me si sostituì intanto una nuova forma di religiosità tendente all’ascetismo, a cui mi dedicai per qualche tempo. Nel 1899 mi trasferii a Basilea dove diventai assistente presso la libreria Reich, fino al 1903. Durante questo periodo continuai la mia attività letteraria, facendo anche molte conoscenze, sebbene venissi visto dagli altri più come un solitario e un emarginato. Nel dicembre del 1900 pubblicai “Gli scritti postumi” e “I poemi” che mostravano una chiara influenza da parte degli scrittori romantici. Continuai a scrivere poemi e recensioni per libri, e i viaggi in Italia agli inizi del nuovo secolo mi portarono a pubblicare una raccolta di poesie, saggi, ricordi, intitolata “Italia”. L’affermazione giunse tuttavia con l’uscita del romanzo “Peter Camenzind” (1904), dove il protagonista rifiuta il mondo cosmopolita per dedicarsi anima e corpo all’arte. Nel 1904 sposai Maria Bernoulli , una fotografa professionista discendente da celebri scienziati, con la quale andai a vivere nel villaggio nei pressi del lago di Costanza sul confine svizzero-tedesco. Qui entrambi speravamo di trovarci più a contatto con la natura, per dedicarci alla scrittura, alla pittura, alla musica e alla fotografia. Tuttavia, tra noi si verificarono notevoli difficoltà di relazione, nonostante la nascita dei nostri tre figli, Bruno, Heiner e Martin, tanto che divorziammo e nel 1897 convolai a nuove nozze con con Ruth Wenger, di vent’anni più giovane, durò solo alcuni anni. Soltanto la mia terza moglie, Ninon Ausländer, una storica dell’arte, austriaca e di origine ebraica, mi rimase al fianco sino alla fine. Le due guerre mondiali mi segnarono molto; soprattutto la prima che mi recò una crisi personale e artistica che mi permise tuttavia di scrivere opere come “Demian” e “L’ultima estate di Klingsor”. Durante questo periodo mi presi cura dei prigionieri tedeschi a Berna. Un esaurimento mi riportò in una casa di cura. Durante la seconda guerra mondiale le mie opere, anche se non ben accolte per le tematiche affrontate, non furono mai censurate. Con la guerra fredda, altro momento fondamentale della mia vita, scelsi di ritirarmi e di tenere per me le mie opinioni. Per quanto riguarda il rapporto con il pubblico trovai sempre più successo soprattutto nei paesi di lingua tedesca, poi, prima della Grande Guerra negli altri paesi europei e in Giappone, e dopo l’assegnazione del Nobel per la letteratura nel 1946 in tutto il mondo. Negli ultimi anni della mia vita, fatta eccezione per la scrittura di brevi racconti, trascorsi le mie giornate dipingendo, scrivendo lettere e combattendo contro varie malattie. Soffrivo continuamente di periodici attacchi di depressione e di spossatezza fisica. Dopo il 1950, la mia vista cominciò ad indebolirsi e nel 1955 le cattive condizioni cardiache mi impedirono di compiere i miei amati viaggi. Fu proprio in questo periodo che i dottori scoprirono che ero malato di leucemia, i cui sintomi si intensificarono verso la fine del 1961. Grazie alle trasfusioni di sangue potei tuttavia vivere ancora fino all’8 agosto del 1962. Sono considerato uno scrittore singolare, e la critica letteraria si occupò molto di me con giudizi non sempre convergenti sul consenso. La. mia opera, sebbene condotta in una prosa classicamente composta, affronta tuttavia temi in conflitto, come sensualità e spiritualità, ragione e sentimento. Il mio interesse per l’irrazionalismo e per certe forme del misticismo orientale precorre, sotto vari aspetti, le espressioni delle ultime avanguardie statunitensi ed europee, e spiega il successo che i miei libri hanno trovato presso le giovani generazioni successive, soprattutto degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. La mia opera è considerata speculare a quella di Thomas Mann: siamo sempre state due figure letterarie messe a confronto dalla letteratura tedesca. Oltre che sul piano letterario eravamo uniti da una grande amicizia che per me rappresentò un arricchimento. Ho lasciato questa vita terrena il 9 Agosto 1962 a Montagnola, nel Canton Ticino e il mio corpo riposa nel cimitero di Gentilino. A Montagnola mi hanno dedicato un museo e un sentiero che la collega ad Agra. Dalle mie opere il cinema ha attinto in diverse occasioni con film come “Il lupo della steppa” del 1974 con Max Von Sydow e Dominique Sanda. A voi dedico questa poesia.
Tormenti
(1919-1928)
Nel camino tra gli spasmi si torce il ceppo che brucia,
segni di vampa scorrono con un brivido sulla cenere della scorza.
Fuori infuria la notte umida, soffre e ulula,
come nel tormento una bestia invoca morte e misericordia.
Nella fiamma che guizza sto rannicchiato al camino
non resiste, sembra, alla sorte l’anima che trema,
sul mio cuore trascorre brivido su brivido,
fuoco di dolore e nel suo ardore mi tormento.
Come il ceppo che brucia e la notte che si lamenta
si arrende il cuore con un guizzo al nemico spietato,
a quel dolore dove rassegnati e inermi avvampiamo
che noi fiamma e ceppo, bufera e grido bestiale affratella.
Sono una stella del firmamento
che osserva il mondo, disprezza il mondo
e si consuma nel proprio ardore.
Io sono il mare di notte in tempesta
il mare urlante che accumula nuovi
peccati e agli antichi rende mercede.
Sono dal vostro mondo
esiliato di superbia educato, dalla superbia frodato,
io sono il re senza corona.
Son la passione senza parole
senza pietre del focolare, senz’arma nella guerra,
è la mia stessa forza che mi ammala.
Quando mi dai la tua piccola mano
Che tante cose mai dette esprime
Ti ho forse chiesto una sola volta
Se mi vuoi bene?
Non è il tuo amore che voglio
Voglio soltanto saperti vicina
E che muta e silenziosa
Di tanto in tanto, mi tenda la tua mano.
Nessuna risposta.