Nel 1912 il Nobel per la Letteratura venne assegnato a me, GERHART HAUPTMANN, “in riconoscimento della sua fertile, varia ed eccelsa produzione nella sfera dell’arte drammatica”. Sono nato il 15 Novembre 1862 a Obersalbrunn Bad, nella Slesia meridionale, in Germania, oggi però è in Polonia. Sono l’ultimo dei 4 figli di Robert e Marie Stralhler., che erano semplici tessitori caduti in disgrazia tanto che furono costretti a mandarmi garzone da uno zio agricoltore. Ero insofferente al rigore scolastico quindi gli anni che seguirono la mia adolescenza furono segnati da un rapporto burrascoso ed infruttuoso con gli studi. Prima ho frequentato un liceo di Breslavia che abbandonai per intraprendere gli studi di agraria, troncati anche questi per dedicarmi per un po’ alle Belle Arti, che però lasciai ancora per seguire mio fratello Carl, studente universitario di Jena, dove intrapresi, senza nessun metodo, lezioni umanistiche e scientifiche. Dopo i tanti fallimenti negli studi rivolsi la mia attenzione sulla letteratura. Vivendo a Berlino ho avuto modo di conoscere Arno Holz, poeta e drammaturgo tedesco, ed altri scrittori d’avanguardia che mi iniziarono al naturalismo al quale legai la prima parte della mia produzione, considerata la migliore. Tornai in Slesia nel 1891 e scelsi come residenza preferita Agnetendorf. Ottenni i più alti riconoscimenti ed onori da istituzioni culturali e università tedesche e straniere. Nel 1889, “Prima dell’aurora” fu il mio dramma naturalistico dell’abbruttimento degli uomini e dell’inerzia dell’impotenza delle astratte idealità di riscatto. “La festa della pace” del 1890 e “Gente solitaria” del 1891 sono drammi familiari che fotografano la decadenza della società borghese. “I tessitori” è il mio capolavoro, la più rivoluzionaria delle mie opere, è il dramma a sfondo storico della rivolta dei lavoratori affamati, alla ricerca del pane prima ancora che di un’umana dignità. Questo nucleo di drammi, caratterizzati da una cupa nota pessimistica, posso affermare che costituì quanto di meglio il naturalismo tedesco seppe produrre. Con “I tessitori” la mia adesione al naturalismo divenne più forte e continuò nella fortunata commedia “La pelliccia di castoro” del 1893 imperniata nella figura di una lavandaia e ne “L’ascensione di Hannele” del 1893 che sovrappone ad un tema ancora naturalistico la storia triste di una bambina seviziata dal patrigno, una rappresentazione scenica quasi romantico-simbolistica del delirio della piccola protagonista. Le due grandi tragedie “Il vetturale Henshel” del 1899 e “Rose Bernd” del 1903, ricche di dinamismo, rientrano anch’esse pienamente nel naturalismo. Toni fiabesco-simbolici ho fatti risaltare ne “La campana sommersa” del 1897 scritta in versi e in “Pippa balla!” del 1906. Un cambiamento dell’ispirazione e nell’atmosfera dei testi avvenne nel mio stile dopo il conferimento del Nobel. I toni cupi prevalsero di più, a volte con risvolti religiosi, come nel romanzo “Emanuel Quint, il pazzo in Cristo” del 1910, a volte invece con toni pagani in derivazione nietzsheana come nella tarda “Tretalogia di Agamennone”, uscito postumo nel 1948 ed “Elettra” sempre postumo nello stesso anno. Una sorta di paganesimo però solare e vitale lo avevo già esternato in precedenza nel magistrale racconto “L’eretico di Soana” del 1918. Nel mio ultimo periodo creativo hanno voluto scorgere un disorientamento ideale ed un affievolirsi della mia ispirazione; il crescente interesse per le tematiche mistico-religiose li convinse di un mio avvicinamento al decadentismo e all’espressionismo. Ho lasciato questa vita nella mia amata Agnetendorf il 6 Giugno 1946 ma ho lasciato un’opera poderosa: 45 drammi alcuni dei quali di grande successo, 18 romanzi e racconti, 6 poemi, 3 raccolte di liriche che costituiscono un immenso archivio di conoscenze sulla Germania guglielmina e postbellica.
Da “La campana di vetro” vi propongo questo brano.
Una fanciulla, una bimba quasi, è seduta sulla sponda del pozzo: è Rautendelein, creatura di spiriti. Pettina essa la sua fluente capellatura d’oro e di rame, e si schermisce da un’ape che le aleggia intorno al capo.
Rautendelein: Su, ronzio d’oro, su! Che vuoi? Che cerchi?
Perché t’avvolgi, uccelletto di sole,
contro di me? Va! lasciami! Son forse
un fiore? È la mia bocca una corolla?
Via, lasciami, via! Hulle, hulle, hulle,
via, marsch! [L’ape vola via] Oh! finalmente!
(Si pettina silenziosamente un poco. Ad un tratto s’affaccia sul pozzo e grida.)
Ondino, olà! (Resta in ascolto) Non m’ode.
(Scrolla le spalle e riprende a ravviarsi la chioma cantando)
Chi son io? Piccola fata
son gemmata
fuor del cortice d’un pino,
o flui, cerula ninfa,
dalla linfa
d’un ruscello cristallino?
Nata son da una carezza
della brezza alla fiamma
d’un roseto porporino?
Ah, conoscer la mia mamma!… ah, sapere il mio destino…
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