27 Ottobre 1932 – Sylvia Plath

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Contrariamente a quello che siamo abituate a fare in questa rubrica mensile, non partirò da un libro dell’autore di cui festeggiamo l’anniversario della nascita ma dall’insieme delle sue opere perché le stesse tracciano un percorso di vita e di morte che fa parte integrante dello suo stile e del suo essere. L’autrice in questione è tra quelle che preferisco, se non la preferita, Sylvia Plath, e cercherò di spiegarvi il perché e spero di farvela amare ed apprezzare. Sylvia Plath ci ha lasciato molte poesie e un solo romanzo, oltre a saggi, racconti, articoli e il suo tormentato diario, del quale è stata distrutta dal marito Ted l’ultima parte che descriveva gli ultimi anni passati insieme. Ma chi era Sylvia Plath? Soffermandomi ad osservare la superficie degli eventi e delle caratteristiche della sua personalità, potrei dirvi semplicemente che era la classica bella ragazza americana: bionda, occhi chiari, slanciata, intelligenza brillante, sposata con un bellissimo e promettente poeta inglese, dal quale avrà i suoi due amatissimi figli. Aveva, potremmo dire, tutte le caratteristiche per vivere una vita felice, per ritenersi soddisfatta, realizzata e invece non fu così: la sua vita è stata estremamente tormentata e paradossalmente questi tormenti ne hanno fatto una grande scrittrice. Sono tre le figure, i personaggi determinanti della sua vita: il padre, la madre e il marito. LA MADRE: molto legata alla madre, Aurelia Schober, Sylvia era convinta che, per farsi accettare ed amare da lei, una donna forte, colta, aperta, deve realizzare successi scolastici, letterari, una vita perfetta da figlia americana perfetta. Una madre amatissima, dalla quale si sentiva però oppressa e dalla quale, dopo il funerale del padre, pretenderà che firmi l’impegno a non sposarsi più: Aurelia accettò e mantenne la promessa impegnandosi per tutta la vita a dare ai suoi figli quello che non aveva mai avuto. Per questo Sylvia si sentì in obbligo di ripagare i sacrifici materni con il conseguimento del successo: successo in cambio di amore. Dal suo diario, altra espressione fondamentale del suo talento di scrittrice e testimonianza di quanto talento e vita reale viaggiassero di pari passo, leggiamo: “La mia paura di venir rifiutata è legata alla paura che lei possa rifiutarmi per il mio insuccesso: […] ai miei occhi la sua approvazione e il suo affetto sono la stessa cosa, che sia vero o no”.  Quanto tormento in queste parole! Fu proprio la madre a rendersi conto che la figlia aveva bisogno di cure e la portò da uno psichiatra che le prescrisse un ciclo di elettroshock praticato in ambulatorio e senza anestesia. Anche questa esperienza è entrata a far parte della sua arte e la ritroviamo nel suo unico romanzo “La campana di vetro” ma anche con immagini molto forti che ritorneranno nei suoi versi. La cura non servì a nulla, anzi peggiorò le condizioni della giovane che, ad appena 21 anni, tentò il primo suicidio dal quale la salvò il fratello. Venne affidata alle cure di una psichiatra, una giovane donna che comprese di avere di fronte a sé una giovane dal quoziente intellettivo altissimo, ma allo stesso tempo di una fragilità estrema. Poco tempo dopo Sylvia cercò di iscriversi ad un corso di scrittura, ma non venne ammessa, un rifiuto che la gettò ancora di più nella disperazione: non parlava, era catatonica, non riconosceva più le parole, poi passò all’alterazione e alla sovreccitazione. La terapia non funzionava, ne uscì solo con altro ciclo di elettroshock. La psichiatra affermò: “Era come se volesse essere punita” e questo solo perché non era stata ammessa ad un importante corso di scrittura, esperienza narrata nel suo romanzo, così come quella dell’elettroshock.

IL PADRE: Sylvia era solita affermare che la data del 5 Novembre 1940 rappresentava la fine della sua infanzia (aveva appena 8 anni) e della sua felicità. In questo giorno infatti muore il padre Otto Emil Plath, professore di college e stimato entomologo di origine tedesca. La sua morte ha significato per la figlia la fine di un’infanzia serena e l’inizio delle sue ossessioni. L’amore che nutriva per lui, che nel suo immaginario di bambina rappresentava il suo gigante protettivo, si trasformerà in odio e in un rancore che le impediranno di far visita alla tomba paterna per ben 18 anni. Sentimenti negativi e ossessivi che riverserà spesso nelle sue poesie come in questi brani tratti da “Papà” che scrisse il 12 Ottobre 1962, pochi mesi prima di morire e nella quale riversa ancora una volta tutto il suo risentimento.

PAPÀ

Non servi, non servi più,
o nera scarpa, tu
in cui trent’anni ho vissuto
come un piede, grama e bianca,
trattenendo fiato e starnuto.
Papà, ammazzarti avrei dovuto.
Ma sei morto prima che io
ci riuscissi, tu greve marmo, sacco pieno di Dio,
statua orrenda dal grigio alluce
grosso come una foca di Frisco
e un capo nell’Atlantico estroso
al largo di Nauset laggiù
dove da verde diventa blu.
Un tempo io pregavo per riaverti… ….Tu stai alla lavagna, papà,
nella foto che ho di te,
nel mento anziché
nel piede, ma diavolo sempre,
sempre uomo nero che
con un morso il cuore mi fende.
Avevo dieci anni che seppellirono te.
A venti cercai di morire
e tornare, tornare a te.
Anche le ossa mi potevano servire.
Ma mi tirarono via dal sacco,
mi rincollarono i pezzetti.
E il da farsi così io seppi.
Fabbricai un modello di te,
uomo in nero dall’aria Meinkampf,
e con il gusto di torchiare.
E io che dicevo sì, sì.
Papà, eccomi al finale.
Tagliati i fili del nero telefono
le voci più non ci possono miagolare.
Se ho ucciso un uomo, due ne ho uccisi –
il vampiro che diceva essere te
e un anno il mio sangue bevé,
anzi sette, se tu
vuoi saperlo. Papà, puoi star giù.
Nel tuo cuore c’è un palo conficcato.
Mai i paesani ti hanno amato.
Ballano e pestano su di te.
Che eri tu l’hanno sempre capito.
Papà, carogna, ho finito.

Sono versi che rivelano tutto il dolore provocato da un padre con il quale comunicare non è mai stato facile, del quale non conosce le radici europee proprio per l’incapacità di chiedere, un padre che lei trasforma in una figura grottesca, un’enorme statua la cui ombra fredda e gelida si estende sull’oceano, fino a Nuaset Beach luogo di bellezza per l’acqua verde che diventa blu (…statua orrenda dal grigio alluce, grosso come una foca di Frisco, e un capo nell’Atlantico estroso al largo di Nauset laggiù dove da verde diventa blu). La morte del padre è una tragedia che la porta a tentare il suicidio (…Avevo dieci anni che seppellirono te. A venti cercai di morire e tornare, tornare a te) e a trovare nel marito un sostituto della figura paterna, un uomo che per sette anni, tanto è durato il matrimonio, le ha succhiato il sangue (….Fabbricai un modello di te, uomo in nero dall’aria Meinkampf… Se ho ucciso un uomo, due ne ho uccisi – il vampiro che diceva essere te e un anno il mio sangue bevé, anzi sette, se tu vuoi saperlo)..

IL MARITO: la poesia “Papà” ha introdotto un’altra figura importante nella vita di Sylvia Plath, il marito, Ted Hughes, inglese, considerato uno dei migliori poeti della sua generazione. Come ho già detto, la vita e la poesia di Sylvia seguirono percorsi paralleli e così giunsero insieme al loro compimento. La morte del padre, come abbiamo visto, la segnò profondamente. La sofferenza per il mancato rapporto con lui, la porterà alla ricerca di figure maschili che lo potessero sostituire, registrando una serie di delusioni continue fino all’incontro con Ted. Sylvia desiderava accanto a sé un uomo grande e forte, una figura che assomigliasse molto al padre e lo trovò nel poeta inglese, non ancora famoso, che la conquistò a tal punto da diventare il suo idolo, il grande amore e la sua poetica lo descrive così

ODE PER TED
Dove preme lo stivale del mio uomo
spuntano verdi germogli d’avena;
egli dà nome a una pavoncella, mette in rotta i conigli,
correndo agile all’irta
siepe di rovo, di soppiatto
stana la volpe rossa, l’astuto ermellino.
Le talpe, dice, montagnose d’argilla,
sgusciano fuori dalle scavate dimore dei lombrichi;
vello turchino hanno le talpe; con un colpo di selce
spacca un quarzo nocchiuto;
maturano i colori scorticati
ricchi, bruni, a sorpresa sotto il sole.
A una sua sola occhiata la stenta terra dona messi:
ogni campo solcato dal suo dito
spinge fuori stelo, foglia, fruttiferi smeraldi;
il chicco luccicante che germoglia di rado
egli lo trae innanzi tempo al suo volere;
all’imperioso cenno della sua mano nidificano gli uccelli.
I colombacci posano volentieri nella sua foresta,
intrecciano canzoni intonate al suo umore
quando passa; come potrebbe non essere felice
oltremisura la donna di codesto adamo
quando la terra tutta convocata dalle sue parole
sorge a lodare il sangue di un tal uomo!
21 aprile 1956

Per un periodo vissero negli Stati Uniti, dove lei ebbe modo di conoscere la poetessa Anne Sexton con la quale sviluppò subito una forte amicizia: Anne riferì dei loro incontri durante i quali trascorrevano il tempo a raccontarsi le reciproche fantasie suicide. Nel 1960 Sylvia e Ted si trasferirono in Gran Bretagna, dove attesero l’arrivo della loro primogenita Frieda. Durante l’attesa, analizzò il suo passato trasferendolo nelle poesie e iniziò ad interrogarsi su quel desiderio di morte e sui motivi per cui il tentativo di suicidio fosse fallito. Scrisse

Presto, presto la carne
che il severo sepolcro ha divorato
tornerà al suo posto su di me, e sarò una donna sorridente.
Ho trent’anni soltanto.
E come i gatti ho nove volte per morire. (dalla poesia “Lady Lazarus”)

E ancora

Morire
è un’arte, come qualunque altra cosa.
Io lo faccio in modo magistrale, lo faccio che fa un effetto da impazzire
lo faccio che fa un effetto vero.
Potreste dire che ho la vocazione. (sempre da “Lady Lazarus”)

Il trasferimento in Europa non risolse i problemi di Sylvia che invece entrò in piena crisi e cominciò una dura lotta terribile contro il proprio demone. La morte appare in quasi ogni strofa, doveva vivere accanto al suo io, che lei conosceva bene e che temeva perché avrebbe voluto ucciderla e che cercò di tenere a bada. “Ho un buon io, che ama i cieli, le colline, le idee, i piatti appetitosi, i colori brillanti. Il mio demone vorrebbe ucciderlo imponendogli di diventare perfetto e spingendolo a darsela a gambe se non ci dovesse riuscire. Mi ostinerò a fare del mio meglio, con coscienza, non importa quello che diranno gli altri. Posso imparare a insegnare meglio. Ma solo a forza di tentativi ed errori. La vita è tutta dolorosi tentativi ed errori. […] Io ho questo demone che vorrebbe vedermi scappare urlando se fossi sul punto di cedere, di fallire. Vuole farmi pensare di essere tanto brava da dover essere perfetta. O niente. Al contrario, io sono qualcosa: una persona che si stanca, che deve combattere la timidezza, che ha moltissimi problemi nell’affrontare il prossimo con disinvoltura.”Da: “Diari (Martedì, 1° ottobre 1957 – Lettera a un demone)”

Il matrimonio non risolse i problemi di Sylvia, forse li acutizzò perché contaminato dal tarlo della gelosia, temeva di perdere di nuovo l’uomo della sua vita, il suo eroe, così come le era accaduto da bambina col padre. E nonostante la nascita del secondo figlio, Nicholas, la tensione familiare oramai irrefrenabile culminò nella separazione definitiva, causata dall’adulterio di Ted. Sylvia rimase da sola nella casa di campagna con i due bimbi ancora piccolissimi. Scrisse febbrilmente, soprattutto all’alba, la sua vita era nel caos ed è proprio in questo momento che la sua poesia è incontenibile ma la sua era una solitudine disperata che rafforzò i suoi toni mistici. Si fece più forte in lei il gusto per il macabro, avrebbe voluto celebrare ancora la propria rinascita, ma riuscì solo a costruire la sua effige funebre. Avrebbe voluto staccarsi da Ted, ma non riuscì a superare lo strazio dell’abbandono, le sue difese si spezzarono e decise di trasferirsi di nuovo a Londra. Questi mesi vennero segnati da un’intensa ripresa letteraria ma fisicamente deperiva a vista d’occhio, prendeva antidepressivi. I suoi amici e il suo medico preoccupati cercarono di organizzarle un ricovero in ospedale che non avvenne mai. L’ultimo giorno della sua vita, l’11 Febbraio 1963, Sylvia si alzò all’alba, spalancò la finestra della cameretta dei suoi bambini nonostante il freddo invernale, Frieda ha 3 anni e Nicholas solo uno. Predispose un vassoio con pane e latte per loro, sigillò la porta della loro stanza con panni e stracci, lo stesso fece con la porta della cucina dove si rinchiuse. Stese un asciugamano sopra lo sportello aperto del forno, aprì il gas e ci appoggiò la testa. Così la trovò l’infermiera mandata dal suo medico, il quale immediatamente accorso, non poté che costatarne la morte. Sei giorni prima di morire, il 5 Febbraio 1963, Sylvia scrisse il suo ultimo grido di dolore.

ORLO La donna ora è perfetta
Il suo corpo
morto ha il sorriso della compiutezza,
l’illusione di una necessità greca
fluisce lungo i drappeggi della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
siamo arrivati fin qui, è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.
E’ abituata a queste cose.
I suoi neri crepitano e tirano.

SYLVIA PLATH – biografia È nata a Boston il 27 Ottobre 1932 da genitori immigrati tedeschi il padre e austriaci la madre. Pubblicò la sua prima poesia a otto anni dimostrando un talento precoce ma quello stesso anno perse il padre, evento che segnò tutta la sua esistenza. I suoi studi furono sempre molto brillanti e le permisero di conseguire diversi premi, uno di questi le permise di trasferirsi a New York ospite di una prestigiosa rivista, ma la vita frenetica della metropoli ebbe su di lei effetti devastanti e minò il suo già fragile equilibrio psichico: l’ipocrisia della middle-class americana, spesso adagiata su di un facile atteggiamento progressista, la mise fortemente a disagio così che i ritorni a casa erano sempre accompagnati da gravi crisi. In quegli anni la famiglia dovette ricorrere a cure psichiatriche,  ai primi ricoveri in manicomio, all’elettroshock a causa dei suoi ripetuti tentativi di suicidio. Nel 1955, uscita dall’ospedale, riuscì a laurearsi con lode e l’anno successivo sposò il poeta inglese Ted Hughes, conosciuto all’Università di Cambridge in Inghilterra che lei aveva iniziato a frequentare grazie ad una borsa di studio. Inizialmente si stabilirono negli Stati Uniti ma appena appresero di essere in attesa del loro primo figlio decisero di trasferirsi a Londra dove il 1° Aprile 1960 nacque Frieda Rebecca e la sua prima raccolta di poesie. L’anno successivo Sylvia subì un aborto causato da un atto violento da parte del marito fedelmente riportato nel suo diario e in alcune poesie. Nel 1961 uscì il suo unico romanzo “La campana di vetro” pubblicato inizialmente con lo pseudonimo di Victoria Lewis. Dopo il trasloco in campagna, nel Devon, il 17 Gennaio 1962 nacque Nicholas, il secondo figlio ma la depressione, causata anche dai tradimenti di Ted, portarono alla separazione: Sylvia trovò la forza di prendere con sé i figli e tornare a Londra. Pur nelle ristrettezze economiche, la sua produzione letteraria esplose, la sua ultima raccolta di poesie “Ariel” uscì postuma in una versione alterata dal marito; sarà la figlia nel 2004 a dare alle stampe la versione originale. L’11 Febbraio 1963 il suicidio col gas dopo aver provveduto, con estrema lucidità, a mettere al sicuro i suoi bambini. Solo nel 2013, grazie ad alcune lettere inviate alla sua psicanalista negli Stati Uniti si apprenderà di atti di violenza, soprusi, minacce di morte da parte del marito. Postume usciranno alcune raccolte curate dallo stesso Ted “Attraversando l’acqua” e “Alberi invernali” e nel 1982 le venne assegnato il Premio Pulitzer per la poesia. Riguardo ai figli, per un breve periodo di tempo, la loro presenza riuscì a farle scrollare di dosso i tormenti permettendole di scrivere tre leggere, allegre e simpatiche storie per bambini, nelle quali non c’è traccia dell’angoscia, del senso di morte, delle ossessioni che hanno caratterizzano tutte le sue opere. Forse era questa l’infanzia che immaginava per loro e che aveva disperatamente desiderato per se stessa. Frieda è diventata a sua volta una poetessa e pittrice, Nicholas invece un biologo che fatalmente è morto suicida dopo aver sofferto per anni di depressione. Per un macabro scherzo del destino anche l’amante di Ted, Assia Wevill, morirà suicida ma lei preferendo portare con sé la bambina avuta da lui, ed anche Anne Sexton amica del cuore di Sylvia,  la quale scrisse dopo la sua scomparsa: «Come hai potuto scivolare giù da sola /nella morte che così tanto e così a lungo ho desiderato /… la morte di cui così tanto parlavamo a Boston /mentre ci scolavamo tre martini extra dry», si suiciderà nel 1974.

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