2 settembre 1840 – Giovanni Verga

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Ci sono autori che ciclicamente studiamo a scuola e che siamo portati ad approfondire grazie alla bellezza delle loro opere. Credo che la gran parte degli studenti, dopo avere letto “Rosso Malpelo” o “La Lupa”, giusto per citare due novelle molto conosciute, abbia sentito la necessità di indagare di più e meglio Giovanni Verga. Ricordo nitidamente, dopo avere letto la chiusa di “Rosso Malpelo” (“…. i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi”), racconto che anticipa fin dall’inizio il destino del protagonista, oppure la descrizione della Gnà Pina – la Lupa – così vorace e passionale, di aver pensato che se avessi chiuso gli occhi sarei riuscita a vederli, questi due personaggi, tanta era la maestria con cui ci erano stati rappresentati. Ed è appunto quello di Giovanni Verga il compleanno che festeggiamo a settembre. Con il romanzo “Il marito di Elena”, scritto nel 1881, subito dopo l’insuccesso de “I Malavoglia”, Verga si discosta dalla svolta verista del 1878, e ritorna allo stile ed ai temi presenti nella prima parte della sua produzione. Ricordiamo che l’autore, nell’incipit della novella “L’amante di Gramigna” aveva declinato allo scrittore sardo Salvatore Farina la sua idea di “verismo”. In primo luogo teorizzava l’impersonalità della narrazione, ovvero lo scrittore avrebbe dovuto limitarsi a raccontare i fatti, senza far minimamente trasparire il proprio pensiero o convinzione.  Inoltre il linguaggio con cui venivano narrati tali fatti sarebbe stato quello in uso agli stessi personaggi, quindi verosimilmente semplice, “popolare”. Come dicevo, in questo romanzo vengono meno questi due capisaldi della poetica verista verghiana. Il tema principale è il contrasto tra i valori profondi del mondo contadino di Altavilla Irpina e la superficialità, la leggerezza della Napoli borghese.

Napoli: Camilla irrompe nella camera dei genitori annunciando la “fuitina” della sorella Elena con l’avvocato Cesare Dorello. Gli sbigottiti genitori si erano opposti al matrimonio dei due giovani in quanto ritenevano inadeguata alla figlia la posizione sociale di Cesare, troppo giovane e fresco di laurea. I due innamorati si erano così accordati per la fuga e vagavano adesso in cerca di parenti ed amici che li potessero ospitare. Cesare, orfano di padre, era nato e cresciuto ad Altavilla Irpina, nell’avellinese, assieme alla madre ed alle due sorelle, e gli era stata impartita dallo zio canonico – Don Anselmo – una rigida educazione a seguito della quale il temperamento delicato del giovane aveva accentuato la sua sensibilità, ma anche una sorta di fragilità interiore, una modesta autostima accompagnata da una lieve timidezza. Del resto Don Anselmo si era occupato anche della formazione del nipote e, ritenendo che la migliore delle professioni fosse quella dell’uomo di legge, aveva finanziato la sua permanenza a Napoli, dove avrebbe frequentato la facoltà di giurisprudenza. Elena abitava con la sorella maggiore ed i genitori, donn’Anna e don Liborio – vicecancelliere del tribunale in pensione – nell’appartamento di fronte a quello preso in affitto da Cesare, e così i due giovani avevano iniziato a vedersi a casa di Elena. Donn’Anna e don Liborio, inizialmente orgogliosi di questa frequentazione, tanto da immaginare Cesare già Ministro, avevano compreso ben presto che l’intraprendenza e l’ambizione non erano due caratteristiche salienti del giovane avvocato, il quale non rispondeva con la dovuta solerzia alle loro pressanti richieste circa la futura apertura di uno studio legale e l’avvio a tutti gli effetti di una brillante carriera. Con la fuitina ed il conseguente matrimonio riparatore anche il rapporto con lo zio Anselmo, deluso dal comportamento del nipote, si raffredda e così i due giovani, non potendo contare sull’ospitalità del canonico, si ritirano nel fondo rustico di Rosamarina che Cesare aveva ereditato dal padre. La semplice vita di campagna, così amata da Cesare, lo aveva aiutato ad aprirsi ancora di più con la moglie e le si abbandonava completamente cercando di prolungare l’incanto della luna di miele. Dal canto suo Elena, frivola ed amante della mondanità, era piuttosto indifferente alle confidenze del marito ed era molto più concentrata sull’acquisto di abiti ed accessori per impressionare qualche signorotto locale. Pareva non accorgersi dell’amarezza del marito il quale, nell’intento di risparmiarle ogni sorta di preoccupazione, si vedeva costretto ad elemosinare qualche lavoretto di basso profilo per poter pagare i debiti contratti. Quando Elena cede alle lusinghe di Don Peppino e dopo che neppure la nascita della piccola Barbara la porta ad essere una moglie amorevole ed attenta alle necessità della figlia, la frattura fra i due coniugi si fa sempre più evidente, fino al drammatico epilogo.

Giovanni Verga nasce a Catania (in alcuni testi è riportato Vizzini, dove il padre aveva alcune proprietà) il 2 settembre 1840 in una famiglia di piccoli proprietari terrieri di orientamento liberale ed antiborbonico. Tra il 1851 e il 1858 prende lezioni private dal letterato Antonio Abate e questa frequentazione fa nascere nel giovane sentimenti patriottici, che sfociano nel suo primo romanzo – inedito – “Amore e Patria”. La formazione del giovane Verga si basa non solo sulla lettura dei classici, ma soprattutto sulle opere degli scrittori francesi moderni. Assecondando la volontà paterna si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, ma il suo poco interesse per gli studi giuridici lo porta presto ad abbandonare l’Università per dedicarsi completamente alla scrittura. E’ di questo periodo la trilogia dei cosiddetti “romanzi catanesi”, l’ultimo dei quali – “Sulle lagune” – viene pubblicato a puntate sul periodico «La Nuova Europa». Dal 1865 si allontana da Catania approdando prima a Firenze, capitale d’Italia, dove entra in contatto con l’ambiente letterario fiorentino, e poi a Milano, dove frequenta i circoli vicini alla Scapigliatura. Esprime grande ammirazione per gli scrittori francesi, in particolare per il caposcuola del naturalismo Émile Zola e si afferma come autore di successo con i romanzi “Eva”, “Tigre reale” ed “Eros” e la novella “Nedda”, considerata la linea di demarcazione della definitiva adesione alla corrente letteraria del Verismo. Negli anni successivi lavora al progetto de “Il ciclo dei vinti”, che doveva originariamente raccogliere cinque romanzi veristi, ma che si esaurirà con “I Malavoglia” e “Mastro-don Gesualdo”. Dal 1883 al 1919 pubblica sei raccolte di novelle, una delle quali – “Cavalleria Rusticana” – viene musicata e portata in scena nel 1890 dal compositore livornese Pietro Mascagni. Pare che quest’ultimo non avesse ricevuto formale autorizzazione da parte del Verga che intentò una causa, poi vinta, per violazione del diritto d’autore. La morte lo colse nella sua Catania il 27 gennaio 1922.

di Silvia Corsinovi

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