Nel 1926 il Premio Nobel per la Letteratura venne assegnato a me, GRAZIA DELEDDA, la seconda italiana nonché la prima donna nel nostro paese, “per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezza della vita della sua isola nativa, con profonda comprensione degli umani problemi”.
Il mio nome per esteso è Grazia Maria Cosima Damiana Deledda e sono nata a Nuoro il 27 Settembre 1871. Mia madre si chiamava Francesca Cambosu. Ero la quinta di sette figli, mio padre Giovanni Antonio, laureato in Legge ma commerciante di carbone di professione, era un cattolico intransigente, che si interessava di poesia e componeva versi in sardo, aveva aperto una tipografia e stampava una rivista. Dopo aver completato le scuole elementari, venni seguita da un professore, ospite di un parente, che mi insegnò le basi dell’italiano, del latino e del francese. Proseguii gli studi da autodidatta. Per la mia formazione nei primi anni da scrittrice, importante fu l’amicizia con Enrico Costa, scrittore, archivista e storico dilettante di origini sassaresi, che per primo intuì il mio talento. Per un lungo periodo intrattenni un rapporto epistolare con lo scrittore calabrese Giovanni De Nava, con il quale egli si complimentava con me dei miei scritti, delle mie capacità di scrittrice. Quelle missive poi si trasformarono in lettere d’amore con le quali ci scambiavamo poesie dolci e romantiche, fino a quando lui smise di scrivermi e il nostro rapporto si interruppe. Intanto la mia famiglia venne colpita da una serie di disgrazie: mio fratello maggiore Santus abbandonò gli studi e divenne un alcoolizzato; il più piccolo Andrea venne arrestato per aver commesso piccoli furti; mio padre morì per una crisi cardiaca lasciandoci in difficoltà economiche. Era il 1892. Quattro anni prima avevo inviato alla rivista “ULTIMA MODA” di Roma, il mio primo scritto chiedendone la pubblicazione. Si trattava del racconto “Sangue sardo” nel quale la protagonista uccide l’uomo di cui è innamorata e che non la corrisponde perché vorrebbe sposare la sorella. Un testo che rientrava nel genere della narrativa popolare e d’appendice. Tra il 1888 e il 1890 collaborai con riviste romane, sarde e milanesi, incerta tra prosa e poesia, ma l’opera che ha segnato veramente l’inizio della mia carriera letteraria è “Fior di Spagna” del 1892, che ottenne buone recensioni. Gli scritti risentivano di un clima tardo romantico, esprimendo, in termini convenzionali e privi di spessore psicologico, un amore vissuto con ineluttabile fatalità. Anche per me fu un periodo di sogni sentimentali, più che di vere relazioni: gli uomini condividevano con me le aspirazioni artistiche, ma un vero progetto sentimentale era presente solo in me. Sollecitata dallo scrittore Angelo De Gubernatis, mi occupai anche di etnologia. Dal 1893 al 1895 il miglior risultato che conseguii furono le 11 puntate delle “Tradizioni popolari italiane”, introdotte da una citazione di Tolstoj, prima testimonianza del mio interesse per le letteratura russa. Nel 1895 uscì “Anime oneste” e l’anno dopo “La via del male” che venne recensito favorevolmente da Luigi Capuana e nel 1897 “Paesaggi sardi”, una raccolta di poesie. Durante una mia permanenza a Cagliari, nel 1899, conobbi Palmiro Madesani, funzionario del Ministero delle Finanze, che sposai pochi mesi dopo a Nuoro. Poco dopo il matrimonio, mio marito lasciò il suo lavoro per dedicarsi all’attività di mio agente letterario. Ci trasferimmo a Roma realizzando così il mio sogno di evadere dalla provincia sarda. Sebbene la nostra fosse una vita appartata, riservata, nella capitale avemmo modo di conoscere alcuni dei maggiori esponenti della cultura italiana contemporanea. Alla dine del ‘900 uscì, su “NUOVA ANTOLOGIA”, “Elias Portolu” e nacque il nostro primogenito Sardus e al quale si aggiunse 3 anni dopo Franz. Le mie giornate si dividevano tra la famiglia e la scrittura e nel 1904 uscì il volume “Cenere” dal quale venne tratto un film con Eleonora Duse. I due romanzi del 1910, considerati dai più frutto di una mia tenace volontà di scrivere piuttosto che una vera e propria ispirazione, sono comunque notevoli per essere, il primo “Il nostro padrone”, un testo a chiaro sfondo sociale e il secondo, “Sino al confine”, per certi aspetti autobiografico. Al ritmo sostenuto di quasi due opere l’anno, diedi alle stampe “I racconti di chiaroscuro” e il romanzo “Colombi e sparvieri” nel 1912; Canne al vento” nel 1913; “Marianna Sirca” nel 1915; la raccolta “Il fanciullo nascosto” nel 1916; “L’incendio nell’uliveto” nel 1917 e “La madre” nel 1919. Fu il periodo più felice, i romanzi ebbero tutti una prima pubblicazione su riviste e poi dati alle stampe. Le mie opere vennero apprezzate da Giovanni Verga ed ero stimata e riconosciuta anche all’estero. Divenni anche traduttrice, mia una versione di “Eugenie Grande” di Balzac. Nel 1926 arrivò il Nobel, in realtà l’assegnazione avvenne il 10 Dicembre 1027 per il 1926, perché non c’erano candidati con i requisiti necessari. Resta il fatto che mi venne conferito 20 anni dopo il Nobel al grande Carducci e resto ancora oggi l’unica scrittrice italiana ad averlo vinto. Dopo il Nobel uscì “Annalena Bilsimi” che colpì profondamente per una certa stanchezza narrativa che vi rivelarono. Il mio ultimo romanzo “La chiesa della solitudine” è del 1936 e narra di una donna malata di tumore esattamente come me. Ho lasciato questa terra il 15 Agosto 1936 a Roma. Le mie spoglie sono conservate in un sarcofago di granito nero levigato nella Chiesetta della Madonna della Solitudine a Nuoro, mentre la mia casa natale nel centro storico è diventata un museo. Lasciai incompiuta la mia ultima opera autobiografica “Cosima, quasi Grazia” che uscì postuma sulla rivista “NUOVA ANTOLOGIA” e poi edita col titolo “Cosima”. La critica in genere tende a classificare le mie opere nel Regionalismo, nel Verismo, nel Decadentismo oltre che nella letteratura della Sardegna, altri invece mi riconoscono l’originalità del mio genere. Tuttavia parecchi critici avanzarono riserve sul valore delle mie opere, primi fra tutti i miei stessi conterranei. Gli intellettuali sardi all’epoca si sentirono traditi e non accettarono il mio stile, tranne rare eccezioni, ma ancora di più mi furono ostili i miei concittadini che sostenevano che io descrivessi la Sardegna come una terra rude, rustica e quindi arretrata. I temi principali trattati nelle mie opere furono l’etica patriarcale del mondo sardo e le sue atmosfere fatte di affetti intensi e selvaggi. La mia narrativa si basa su forti vicende d’amore, di dolore e di morte sulle quali aleggiava il senso del peccato, della colpa e la coscienza di inevitabilità in personaggi da tragedia, spesso travagliati da dissidi interiori, sempre però sostenuti da una profonda intimità religiosa si muovono sullo sfondo di un paesaggio arcaico e austero. A voi dedico questa mia poesia.
NOI SIAMO SARDI
Noi siamo Spagnoli, Africani, Fenici, Cartaginesi,
Romani, Arabi, Pisani, Bizantini, Piemontesi.
Siamo le ginestre d’oro giallo che spiovono
sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese.
Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e
profondo,
lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto.
Siamo il regno ininterrotto del lentisco,
delle onde che ruscellano i graniti antichi,
della rosa canina
del vento, dell’immensità del mare.
Siamo una terra antica di lunghi silenzi,
di orizzonti ampi e puri, di piante fosche
di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta.
Noi siamo sardi.
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