Ho incontrato “IL MAESTRO DI VIGEVANO” e il suo autore, LUCIO MASTRONARDI, quando frequentavo le scuole medie. Non ricordo se già avevo visto il film con Alberto Sordi (impareggiabile) oppure no, però ricordo che mi piacque subito e altrettanto il film. In particolare mi affascinava il racconto di quell’Italia di provincia che si avventurava nel boom economico dopo il disastro della 2° Guerra Mondiale e la realtà dell’emigrazione da Sud a Nord che io stessa stavo vivendo, essendo la mia famiglia emigrata dall’Umbria alla Toscana: poca distanza geografica ma notevole dal punto di vista sociale. La storia è ambientata, come chiaramente si evince dal titolo, a Vigevano dove il boom economico degli anni ‘50/’60 porta ad un grande sviluppo di fabbriche calzaturiere questo spinge molte persone a tentare la fortuna investendo in fabbrichette spesso a conduzione familiare. Il protagonista è il maestro elementare Antonio Mombelli che col suo lavoro fa fatica ad arrivare alla fine del mese e quindi si vede costretto ad arrotondare dando lezioni private a casa. Il Maestro Mombelli è sposato con Ada, una donna ambiziosa, attaccata al denaro, arrampicatrice che non sopporta la condizione economica a cui è costretta dal mediocre stipendio del marito che umilia, mortifica e disprezza definendolo un incapace. Lui sopporta le angherie della moglie ma anche la grettezza del mondo che lo circonda, oppresso dal peso di un’esistenza vuota e scialba; la monotonia della sua vita lo spinge ad una grande attenzione per le sue abitudini, che gli sono indispensabili. La speranza che gli permette di sopportare tutto è quella di poter ottenere un avanzamento nella carriera di insegnante e vedere un giorno il figlio Rino diventare “funzionario di tipo A”. Ada però lo assilla fino a convincerlo a lasciare l’insegnamento e ad investire la liquidazione in una fabbrica di calzature che gli cambierà totalmente la vita ma non in meglio. Da maestro con un magro stipendio Mombelli si ritrova imprenditore benestante, un benessere economico ostentato e mal gestito: in un attimo non di confidenza ma di vanteria confida ad un collega delatore i tecnicismi adottati dalla moglie e dal socio per evadere il fisco e la finanza piomba sulla fabbrichetta. Viene estromesso dalla gestione del calzaturificio e diventa in effetti il mantenuto della moglie la quale, oltre a umiliarlo lo tradisce e quando la donna partorisce il loro secondo figlio, un neonato con i capelli rossi caratteristica inusuale in famiglia, il maestro sospetta che non sia figlio suo e lo detesta a tal punto da provare quasi sollievo dalla morte del piccino. Il Destino però sa essere beffardo così Ada, con estrema cattiveria a mio avviso, gli rivela in punto di morte che Rino il loro primogenito, il figlio su cui il maestro Mombelli ha riversato ogni speranza di riscatto, in realtà non è figlio suo ma di un altro uomo mentre il neonato dai capelli rossi era suo figlio. Mombelli così si ritrova solo, senza lavoro, senza Ada, senza Rino finito in riformatorio e per sapere cosa gli accadrà vi invito a leggere questo romanzo dimenticato ma che descrive molto bene la vita di una piccola città di provincia, di una borghesia arrivista, conservatrice e pettegola, che conduce un’esistenza monotona e i cui unici interessi sono la ricchezza e l’affermazione personale, non ha importanza se ottenute a scapito degli altri e più o meno onestamente. L’ambiente scolastico, alla pubblicazione del libro, entrò in fermento per come Mastronardi, ex maestro elementare, lo descriveva nel romanzo: un luogo dove invece che educare i giovani, si aggirano insegnanti frustrati e delusi, in perenne lotta per una promozione che consentirebbe uno stipendio migliore, dove si punisce solo i ragazzi più umili e di ceto inferiore per accattivarsi le simpatie dei genitori benestanti. Attorno al protagonista infatti ruotano personaggi tragi-comici a partire dai suoi stessi colleghi ambiziosi e falsi, al direttore crudele, ricattatore e tiranno e, al di fuori del luogo di lavoro, gli amici del bar sempre seduti al solito tavolo con le stesse abitudini in attesa di movimentare una vita noiosa impicciandosi delle faccende altrui. Vigevano, altro protagonista del romanzo, come molti paesi della provincia settentrionale della nostra Italia in quegli anni si ritrova ad affrontare gli emigranti dell’epoca, i Meridionali, gli extracomunitari di oggi e lo dico senza esagerazione perché vissuto in prima persona: allora erano coloro che provenivano dal nostro Sud (confine molto labile che poteva variare al di qua o al di là degli Appennini, nel primo caso da Bologna in giù, nel secondo da Firenze in giù) per “invadere” le città del Nord per rubare il lavoro ai nativi che spesso e volentieri si rifiutavano di affittare loro persino le case. Non molto è cambiato direi in 60/70 anni, sono solo cambiati gli obiettivi della discriminazione.
Lucio Mastronardi
Era nato a Vigevano il 28 Giugno 1930 da una famiglia piccolo borghese e in ambiente provinciale, lo stesso che poi Mastronardi racconterà nei suoi romanzi, una realtà da lui conosciuta anche attraverso l’attività di maestro, cui si dedica, sulle orme dei genitori (il padre antifascista verrà costretto al pensionamento anticipato) dapprima in contesti umani fortemente caratterizzati (la campagna, il carcere, i corsi serali) e poi nella scuola elementare della sua cittadina. Le prime pubblicazioni letterarie sono del 1955, sul “Corriere di Vigevano” ma fu grazie ad un incontro casuale con Elio Vittorini che avvenne l’esordio vero e proprio con il romanzo “Il calzolaio di Vigevano” sul primo numero della rivista “Menabò” fondata dello stesso Vittorini e Italo Calvino; seguirà nel 1962 il secondo romanzo di “Il maestro di Vigevano” per Einaudi e poi nel 1964 “Il meridionale di Vigevano”, che completa la trilogia. L’ambiente descritto in tutti i romanzi è il suo paese natale, la “capitale della calzatura”, assurta a simbolo del boom economico e del quale racconta con sguardo critico la trasformazione di una realtà agricola in una città industriale e ne segue lo sviluppo dal periodo fascista alla contemporaneità. Con toni a volte grotteschi Mastronardi riporta atmosfere di disagio e fallimento in parte autobiografici. Il successo prima del romanzo “Il maestro di Vigevano” e poi del film non porteranno fortuna all’autore che si alienerà il consenso dei suoi concittadini che lo attaccheranno anche sulla stampa e Mastronardi, sempre più isolato, iniziò a pensare di abbandonare l’insegnamento per continuare solo con la carriera di scrittore. A causa della tensione accumulata e dopo un violento litigio con un ferroviere su un treno, lo scrittore venne obbligato al ricovero in un ospedale psichiatrico ad Alessandria. Venne processato e condannato a due giorni di carcere a Vigevano, gli tolsero l’insegnamento obbligandolo ad un lavoro di segreteria, finché ottenne il trasferimento a Milano dove iniziò a lavorare come bibliotecario, era il 1970. Dopo la rottura con Einaudi, Mastronardi pubblica con Rizzoli “A casa tua ridono” nel 1971, “L’assicuratore” nel 1975 e “Gente di Vigevano” nel 1977. Intanto era tornato ad insegnare ad Abbiategrasso ma un violento litigio con il suo direttore gli costò una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale, tre giorni di carcere a S. Vittore, quattro mesi con la condizionale e il peggioramento della sua salute mentale. Nel 1973 si era sposato ma alla notizia dell’arrivo di un figlio Mastronardi tentò il suicidio lanciandosi dalla finestra di casa, salvandosi solo per l’atterraggio su un’automobile che ne attutisce la caduta. La figlia Maria nascerà nel 1975 e l’anno successivo viene costretto alla pensione anticipata a causa del suo condizioni di salute. Alla fine del 1978 gli venne diagnosticata una neoplasia polmonare che lo gettò nella totale disperazione. Quattro mesi dopo uscirà di casa per una passeggiata e non vi farà più ritorno. Alcuni testimoni affermarono di averlo visto passeggiare lungo il ponte sul Ticino, il suo corpo verrà ritrovato cinque giorni dopo da un pescatore.
Nessuna risposta.