Nel 1906 il Nobel per la Letteratura venne assegnato a me, GIOSUE’ CARDUCCI, con la seguente motivazione “Non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica”. Il mio nome per esteso è Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci e sono nato il 27 Luglio 1835 a Valdicastello, in provincia di Lucca da Michele, un medico e rivoluzionario, e Ildegonda. Il 23 Ottobre 1838 i miei si videro costretti a trasferirsi a Bolgheri perché mio padre aveva vinto il concorso come medico della zona e quello che era uno sperduto paesello, grazie a me è diventato famoso in tutto il mondo. L’esperienza in Maremma l’ho rievocata con affettuosa nostalgia nel sonetto “Traversando la Maremma toscana” del 1885 ma anche in molte altre mie poesie. Della nostra famiglia faceva parte anche la mia celeberrima nonna Lucia, una presenza determinante per la mia educazione e formazione, tanto che ho voluto ricordarla con grande affetto nella poesia “Davanti a San Guido”. La sua morte nel 1842 mi gettò nella disperazione, un dolore immenso. Mio padre intanto era rimasto coinvolto nei moti rivoluzionari che stavano prendendo piede. La situazione precipitò al punto che vennero sparati dei colpi di fucile verso casa nostra, così da costringerci per la preoccupazione a trasferirci nella vicina Castagneto dove restammo per circa un anno. Ad Aprile del 1849 traslocammo di nuovo, questa volta a Firenze, dove iniziai a frequentare l’Istituto degli Scolopi e dove conobbi Elvira Menicucci, la mia futura moglie. A Novembre del 1853 entrai alla Scuola Normale di Pisa, grazie ad una lettera del mio maestro Padre Geremia, nella quale mi descriveva come un giovane di ingegno e ricchissima immaginazione, colto e di buon carattere anche se avevo tutti i requisiti necessari per essere ammesso. Sostenni l’esame svolgendo brillantemente il tema “Dante e il suo secolo” e vinsi il concorso. Quello stesso anno fondai, con tre compagni, il gruppo degli “Amici pedanti” in difesa del classicismo contro i manzoniani. Dopo la laurea, conseguita con il massimo dei voti, iniziai ad insegnare retorica al Liceo. Ricordo che era il 1857, l’anno delle “Rime di San Miniato” che purtroppo ottennero scarsissimo successo. La sera del 4 Novembre una grande tragedia colpì la mia famiglia: mio fratello Dante si suicidò squarciandosi il petto con un bisturi di nostro padre, forse a causa dei contrasti col genitore diventato estremamente duro anche con noi figli. Un anno dopo perdemmo anche lui. Dopo il lutto, finalmente sposai Elvira e, dopo la nascita delle nostre figlie, Beatrice e Laura, ci trasferimmo a Bologna, in un ambiente colto dove ho insegnato eloquenza italiana all’Università. Fu un lungo periodo di insegnamento al quale affiancai una fervida ed appassionata attività filologica e critica. Le tragedie familiari però non erano finite: io e mia moglie perdemmo nostro figlio Dante in giovanissima età. Gli avevo dato il nome di mio fratello per ricordarlo. Alla morte di questo nostro sfortunato figlio, nell’estate del 1871 composi la poesia “Pianto antico”. Negli anni che seguirono l’unità d’Italia, critico nei confronti del Governo, mi riscoprii filo-repubblicano, addirittura giacobino. Ne risentì anche la mia attività poetica, che in questo periodo si caratterizzò per la tematica sociale e politica. Negli anni successivi cambiai di nuovo pensiero politico, diventando molto più pacato nei confronti dello Stato e della monarchia, atteggiamento che mi portò, nel 1890, alla nomina a Senatore del Regno. Tornammo a Castagneto nel 1879 dove diedi vita, insieme ai miei amici e compaesani, alle celebri “Ribotte” durante le quali ci si intratteneva degustando piatti tipici locali, bevendo vino rosso, chiacchierando e componendo numerosi brindisi appositamente per quelle occasioni conviviali. Nel 1906 è arrivato il Nobel ma le mie condizioni di salute, decisamente precarie, non mi permisero di andare a Stoccolma per ritirare il premio che mi venne consegnato nella mia casa di Bologna, dove spirai il 16 Febbraio 1907 a causa di una cirrosi epatica. A voi dedico questa mia poesia tratta dalle “Odi barbare”
“Nevicata”
Lenta fiocca la neve pe ‘l cielo cinereo: gridi,
suoni di vita più non salgono da la città, non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d’amor la canzon ilare e di gioventù. Da la torre di piazza roche per l’aere le ore
gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì. Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
spiriti reduci son, guardano e chiamano a me. In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò. Marzo 1881
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