Albert Camus mi riporta ai tempi della scuola superiore, quando, seguendo il consiglio di una simpatica insegnante di francese, lessi “L’etranger”, che sul momento non apprezzai in modo particolare, probabilmente a causa di una non perfetta padronanza della lingua. La seconda chance data al romanzo, qualche anno dopo, fu una buona idea.
In tempi recenti, durante la “reclusione” causata dalla pandemia di Covid-19, in un noioso pomeriggio davanti alla tv, sentii che – evidentemente per assonanza rispetto allo sciagurato periodo che stavamo vivendo – vi era stato un ritorno alla lettura de “La peste”, libro che avevo in casa ma che non avevo ancora sfogliato. Come sempre, quando sono incuriosita da un titolo, vado alla ricerca di informazioni propedeutiche alla lettura ed in questo caso ne trovai una utilissima che mi rivelò la fallacia della suddetta assonanza. Nell’opera “La peste”, pubblicata nel 1947, Camus attribuisce infatti un significato allegorico alla malattia: simboleggia il Male, nello specifico rappresentato dal regime totalitario appena sconfitto, il nazismo. E non solo: vi è anche una nota autobiografica nel romanzo, dal momento che allo scrittore fu diagnosticata in giovanissima età la tubercolosi, patologia che lo accompagnò tutta la vita.
Ancor più interessata al testo, ho iniziato la mia lettura…
La vicenda si svolge ad Orano, in Algeria, intorno gli anni ‘40/’50 del 900. Orano è una città piuttosto incolore che improvvisamente viene scossa nella sua banale quotidianità da una moria di ratti che desta preoccupazione nella cittadinanza e nell’Amministrazione Comunale. In breve tempo, però, il numero degli animali morti diminuisce drasticamente ed iniziano ad ammalarsi le persone di una sorta di febbre inguinale, resistente ad ogni cura. E’ chiaro fin da subito alla comunità scientifica che si tratti di peste bubbonica, ma c’è assoluta ritrosia ad ammetterlo. Intanto le morti si moltiplicano, tanto che le porte della città vengono chiuse nel tentativo di isolare l’epidemia. Ecco che quindi la peste diviene un dramma corale del quale iniziamo a conoscere i protagonisti, le cui vite sono tragicamente impattate dal cordone sanitario e che affrontano gli avvenimenti sulla base del loro personale sentire: il medico Rieux – voce narrante – che si adopera con grande spirito di sacrificio (lascia che la moglie, gravemente ammalata, si rechi da sola in un’altra località per potersi curare) e di servizio per assistere gli sfortunati concittadini. Rieux, assieme all’anziano collega Castel, individua immediatamente nella peste, prima bubbonica e poi polmonare, la causa della pandemia. I due medici, oltre a prestare le prime cure ai malati, lavorano incessantemente per produrre un vaccino efficace. Vi è poi Grand, dipendente dell’Amministrazione Comunale, impegnato nella scrittura di un romanzo, o meglio, nell’ossessiva riscrittura dell’incipit di un romanzo. Grand ha impedito il suicidio di Cottard, che – paradossalmente – è l’unico a trarre dalla peste un vantaggio. Cottard è infatti in procinto di essere arrestato dalla polizia per un reato commesso in precedenza e si trova in qualche modo ad essere “dimenticato” dalle Autorità. Altro comprimario è un uomo di fede, il gesuita Padre Paneloux che, inizialmente, definisce la peste un castigo divino, ma che viene segnato profondamente dalla sofferenza del piccolo Othon, tanto da mettere in discussione tutte le sue certezze. Conosciamo inoltre Jean Tarrou, che ha rinunciato alla carriera forense dopo aver osservato il cinismo con il quale suo padre, avvocato, ha mandato a morte un uomo in un processo. Tarrou tiene un diario nel quale annota il dramma dell’epidemia ed è di supporto a Rieux nell’organizzare dal punto di vista sanitario il soccorso ai malati. L’ultimo protagonista è Raymond Rambert, giornalista, che si impegna al massimo per uscire dalla città e raggiungere la donna amata, ma poi decide di restare e dare una mano agli altri volontari.
L’impegno ed il sacrificio di tutti, oltre naturalmente all’efficacia del vaccino, fa sì che la pandemia improvvisamente inizi a regredire, anche se resta in tutti la consapevolezza che la malattia, così come il male, non è mai completamente sconfitto.
di Silvia Corsinovi
Albert Camus nacque a Dréan, in Algeria – possedimento francese fin dal 1834 – il 7 novembre 1913, in una famiglia umile: il padre Lucien Auguste era un operaio agricolo e la madre svolgeva servizi domestici presso alcune famiglie abbienti. Dopo la morte del padre la famiglia si trasferì ad Algeri, dove il piccolo Albert – grazie ad una borsa di studio – potè intraprendere gli studi superiori prima e quelli universitari poi, che si conclusero con una laurea in filosofia. A soli 17 anni contrasse la tubercolosi e la malattia lo costrinse a rinunciare alla sua carriera di portiere di calcio, all’epoca nella squadra del Racing universitario di Algeri. Sempre la malattia gli impedì di dedicarsi all’insegnamento ed il giovane Camus si concentrò quindi sul grande amore per la scrittura ed il giornalismo, collaborando con i quotidiani “Alger Républicain” e “Soir Républicain”. Nel 1940, dopo due matrimoni, principalmente a causa delle idee politiche (nel 1936 si era iscritto al Partito Comunista Francese) lasciò l’Algeria per trasferirsi definitivamente a Parigi dove non abbandonò la militanza, ma prese anzi parte alla Resistenza nella cellula “Combat”. Questi sono anni estremamente prolifici per Camus: opere teatrali, saggi, romanzi, racconti che gli valsero nel 1957 il Nobel per la Letteratura con la seguente motivazione: “Per la sua importante produzione letteraria, che con serietà chiarificante illumina i problemi della coscienza umana nel nostro tempo“.
I temi trattati nella sua produzione letteraria (l’assurdità della condizione umana, la distanza dell’uomo dal mondo che lo circonda, il senso di ribellione dell’individuo..) lo definiscono un esponente dell’esistenzialismo francese, anche se Camus ha sempre preso le distanze da questa “etichetta”. Morì a soli 46 anni il 4 gennaio 1960 a Villeblevin, una cittadina a sud di Parigi, a seguito di un incidente stradale.
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